Perché uno pseudonimo?

Una delle prime domande che mi viene posta è: “Perché Joachim Noir? Perché non pubblicare con il tuo vero nome?” È una curiosità legittima, e credo che meriti una risposta sincera.
Due vite, due mondi
Nella mia vita ufficiale sono Gioacchino Poletto. Scrivo di tecnologia, programmazione, sistemi. È un mondo fatto di logica, algoritmi, codice che funziona o non funziona. Bianco o nero, per dirla in modo semplice. Un universo che conosco bene e che mi accompagna da anni.
Joachim Noir nasce invece dal bisogno di esplorare le sfumature, i chiaroscuri, le zone grigie dell’animo umano. È la parte di me che si interroga sui misteri, che si lascia affascinare dall’ambiguità, che trova bellezza nell’incompiuto e nel misterioso.
Un esperimento di libertà
Lo scrivere, per me, è ancora un esperimento. A 49 anni, non so se questa passione crescerà fino a diventare qualcosa di più grande, o se rimarrà un meraviglioso diversivo. Usare uno pseudonimo mi ha dato la libertà di provare, di sbagliare, di reinventarmi senza il peso delle aspettative legate al mio nome “tecnico”.
È come avere un laboratorio creativo dove tutto è possibile, dove posso sperimentare stili, generi, personaggi, senza che nessuno si aspetti da me un manuale di programmazione o un’analisi di sistema.
La nascita di un alter ego
Joachim Noir non è solo un nome di fantasia: è diventato una vera e propria identità creativa. Quando scrivo come Joachim, accedo a una parte di me più istintiva, più emotiva, meno razionale. È la differenza tra analizzare un problema informatico e immergersi nell’atmosfera nebbiosa dei Navigli di Milano.
Questo pseudonimo mi permette di essere vulnerabile sulla pagina, di esplorare paure e ossessioni che Gioacchino Poletto, il professionista, terrebbe probabilmente per sé.
Il fascino del mistero
C’è anche, lo ammetto, un elemento di fascino nel mistero. I grandi scrittori di noir hanno spesso giocato con identità multiple, nomi d’arte, maschere letterarie. Non pretendo di essere al loro livello, ma mi piace l’idea di costruire un personaggio letterario che viva autonomamente.
Joachim Noir può permettersi di essere più coraggioso, più sperimentale, più disposto a esplorare territori inesplorati ed insidiosi.
Un invito alla scoperta
Forse la ragione più profonda è che volevo creare uno spazio dove voi lettori poteste incontrarmi per quello che scrivo, non per quello che faccio nella vita di tutti i giorni. Qui, in queste pagine, siamo tutti uguali davanti al mistero di una storia che si svela.
Joachim Noir è il narratore che vi accompagnerà nei casi di Jan Haiver e nelle altre storie che verranno. È la voce che sussurra nell’ombra, che vi invita a seguirlo lungo i canali della città, tra i segreti nascosti negli angoli più bui di Milano e oltre.
Il NOME dietro il NOME
Questo non significa che io mi nasconda. Sono sempre io, con le mie passioni, i miei dubbi, la mia curiosità per la natura umana. Solo che adesso ho un nome che mi rappresenta in questa veste particolare: quella dello scrittore di storie che indagano l’animo umano.
E voi? Avete mai sentito il bisogno di essere qualcun altro per esprimere una parte diversa di voi stessi? Avete mai desiderato un alter ego che vi permettesse di esplorare territori inesplorati?
Joachim
Raccontatemi: cosa pensate degli pseudonimi in letteratura? Vi affascina di più conoscere la vera identità di uno scrittore o preferite il mistero? La curiosità è il motore di ogni buona storia…
I vostri pensieri risuonano come echi tra le pagine delle mie storie, creando nuove atmosfere e rivelando angoli nascosti che nemmeno io avevo visto. Ogni vostra riflessione diventa parte del mistero.
Gioacchino, il tuo articolo mi ha colpito profondamente, e devo dire che trovo la tua riflessione sullo pseudonimo non solo coraggiosa, ma anche estremamente lucida.
Come donna che lavora nel mondo dell’editoria da anni, ho avuto modo di osservare quanto sia potente la capacità di uno pseudonimo di liberare completamente la voce autoriale. Tu descrivi perfettamente quella sensazione di “laboratorio creativo” – è esattamente così. Lo pseudonimo non è una maschera per nascondersi, ma piuttosto una chiave per aprire stanze della propria personalità che altrimenti resterebbero sigillate dalle convenzioni professionali e sociali.
Mi ha particolarmente colpita la distinzione che fai tra il mondo “bianco o nero” della programmazione e le “zone grigie dell’animo umano” di Joachim Noir. È una dicotomia che conosco bene: anch’io ho due identità lavorative distinte, e so quanto possa essere liberatorio permettere a una parte di sé di esprimersi senza il peso delle aspettative legate al proprio ruolo “ufficiale”.
La letteratura è piena di esempi meravigliosi di pseudonimi che sono diventati identità autonome: da Elena Ferrante ai Cain (James M. Cain ha influenzato il noir americano), fino alla nostra contemporanea narrativa italiana. Non si tratta di fingere di essere qualcun altro, ma di dare spazio a una versione più autentica di sé – paradossalmente più vera proprio perché libera dai vincoli dell’identità sociale.
Il fatto che tu abbia scelto di iniziare questo percorso a 49 anni lo rende ancora più affascinante. C’è qualcosa di profondamente coraggioso nell’abbracciare l’incertezza creativa in un’età in cui molti si accontentano delle certezze acquisite.
Per rispondere alla tua domanda finale: sì, penso che molti di noi abbiano bisogno di alter ego per esplorare parti diverse di sé. Io stessa, quando traduco, divento temporaneamente la voce dell’autore che sto traducendo – è una forma di pseudonimo temporaneo che mi permette di accedere a registri espressivi che altrimenti non mi apparterebbero.
Continua a seguire Joachim Noir ovunque ti porti. Dalle tue parole si percepisce che questa identità creativa ha ancora molto da raccontare, e noi lettori siamo pronti a seguirvi entrambi – tu e il tuo alter ego – in questo viaggio nelle zone d’ombra della narrativa.
Non vedo l’ora di leggere i casi di Jan Haiver.